martedì 2 ottobre 2012

Serie A: 50 anni, e non sentirli


Franco Casalini      I have a dream

Quando arrivai per la prima volta nell’ufficio di Rubini, settembre 1972, al colloquio per andare ad allenare le giovanili del Simmenthal, la prima cosa che mi disse, ancor prima di sedermi quasi, fu: “a noi non interessa un cazzo vincere le partite, noi vogliamo fare dei giocatori, sei d’accordo?” Secondo voi cosa ho risposto? O meglio, secondo voi camperei ancora di basket, quarant’anni dopo, se avessi detto: “no, io voglio vincere!”??? Ma questo è un altro discorso…
Alla vigilia del 17° campionato dell’era Bosman (91° in totale), parafrasando l’indimenticato, e indimenticabile Principe, “a noi non interessa un cazzo sapere chi vince, a noi interessa divertirci a una partita di basket“.
Calma: non sono impazzito…lasciatemi spiegare, se riesco.
Proviamo a fare un conto dei tiri di una partita: mettiamo 80, in media.
Bene:
1. Una ventina da tre (quando sono pochi…): scarico e tiro; qualche 1 contro 1 da schema con step back; qualche altra volta palleggio, palleggio, palleggio e tiro da 8 metri fuori da ogni schema, per un uzzolo folle del giocatore in possesso di palla, o dopo schema rotto; nell’ambito di un pick and roll, sia del palleggiatore che del bloccante (a proposito, fermatemi se pensate che sia troppo tecnico); in transizione, anche qui talvolta per frenesia, fretta o follia; più le inevitabili sparacchiate alle sirene (24 secondi o fine tempo)
2. Una quarantina da due (e sono ottimista): entrata dei piccoli, rigorosamente in terzo tempo, salvo poi entusiasmarci per la prevista stoppata; pochi low post, tutti di forza, raramente di tecnica; schiacciata dopo scarico; ma anche qualcuna da restare a bocca aperta per bellezza o atletismo, sia chiaro; qualche sporadico contropiede, più da palla rubata che da rimbalzo; qualche tiro in sospensione.
3. Il resto dei punti viene dai tiri liberi, dei quali almeno la metà a causa del bonus speso…
Ebbene, di tutti questi tiri, quanti ne ricordate un po’ diversi dal solito (a parte qualche clownesco tiratore di liberi), tali da stupire, o quanto meno da venire ricordati, fatto salvo il numero di tiri alla sirena o decisivi?
In compenso, vediamo una miriade di opzioni difensive, tutte interessanti, tutte intelligenti, tutte tempestive a ben studiate.
E dunque, la mia domanda è: attiriamo nuovo pubblico, con questa deriva? Ok, ci sono ben altri problemi, ben più pregnanti, per questo problema, lo so. Ma, nel suo piccolo, la gente si diverte di più con un 98-96 o un 68-66?
Ogni tanto sento dire, da persone certamente qualificate: quello lì non è giocatore da pick and roll, oppure che quell’altro è un tiratore da scarico, o da isolamento… Ci rendiamo conto di cosa sottintende tutto ciò? Giocatori come pedine immutabili? Dover adattare, e dunque limitare, il gioco ai giocatori? Sarà senz’altro una filosofia più pragmatica, forse anche vincente, non lo nego. Ma tutto ciò sottintende una cosa ben più grave: la morte della fantasia, come Never Ending Story.
Io, coach, so già cosa farà quel tale giocatore, e passi. Peggio: io, appassionato, so già cosa vedrò stasera, a parte qualche incertezza sul risultato (per altro neanche quella, negli ultimi anni…). Senza fantasia nel gioco, senza imprevedibilità delle soluzioni, senza incertezze sugli esiti, tanto vale giocare a volley (senza offesa), sport tanto bello, per coloro a cui piace, ma innegabilmente ripetitivo nelle giocate.
Ecco perché ho parafrasato Rubini in quel modo. Non certo, dunque, perché vedere chi vince sia meno importante, no davvero: è il sale dello sport, anzi, la pagnotta. Il sale, invero, è proprio ciò di cui ho parlato, l’ingrediente che dà più sapore ad una pietanza già nutriente, la differenza fra sfamarsi e godere dei piaceri della tavola.
Sento già i vostri commenti: ecco il nonno e i suoi “ai miei tempi”! Che palle!
Non lo nego: ecco il motivo per cui I have a dream…
I have a dream… che si ricominci a vedere con continuità qualche giocata un po’ diversa dalle solite, qualcosa che valga la pena di essere ricordato.
Vi faccio due nomi, due trait d’union fra passato e presente: uno ha smesso, da poco, Dejan Bodiroga, l’altro ancora gioca, Manu Ginobili. Uno, Dejan, ha fatto una carriera, e che carriera!, come l’uomo lento più veloce del mondo, andando a canestro sempre e comunque a suo modo, con sospensione, finta passo e tiro, uso del tabellone (dimenticato quasi), uso del corpo, etc. L’altro, Manu, a parte tutto il resto, lo voglio citare perché tempo fa girava un video di un suo canestro, in cui, dall’angolo, marcato, si è liberato per tirare solo facendo due o tre finte col piede.
I have a dream… che si ricominci a vedere un lungo passare la palla NON sempre e solo consegnata mano a mano al piccolo che accorre in suo aiuto perché se ne liberi.
Non pretendo che tutti diventino di colpo Cosic, Meneghin o Sabonis, ma che almeno i giovani lunghi comincino a imparare come passare a qualche metro, per cominciare, e poi a rischiare di farlo, godendo della fiducia dei piccoli, che magari ti piazzano un back door (troppo tecnico? Pardon!). L’anno scorso, nell’INTERO anno scorso, ne ricordo solo uno, da un lungo, sia pure sui generis, a un piccolo: Stonerook, che ha smesso, mannaggia!, per McCalebb, che se n’è andato altrove, ri-mannaggia! I have a dream…di ammirare una moltitudine di loro epigoni.
I have a dream… che si ricominci a vedere le squadre tendere ad avvicinarsi a canestro, anziché allontanarsene, riducendo il gioco, per la sua maggior parte, a chi tira meglio da lontano, anziché chi conosce di più e meglio il gioco nella sua essenza. Che si tenda, anche nei quarti successivi al primo, ad andare al post non perché ci pensi lui, quelle rare volte, ma perché sia parte di un tutto, sia per i suoi tiri, magari variati (il gancio, questo dimenticato, Mason Rocca a parte), sia perché sia il tramite di un’idea, di una forzatura della difesa atta ad aprire il gioco. Lo so, facile da dire, poi bisogna andare in palestra e farlo: non crediate che sottovaluti le difficoltà dei miei ex-colleghi.
I have a dream… che giovani, futuri campioni ci mostrino qualcosa di nuovo, in termini di repertorio individuale. Per esempio, più entrate sotto controllo come quelle di Hackett sono una particolarità, così come più uscite dal blocco con varietà di opzioni, come fa sempre più spesso Aradori, o ancora: più giocater a doppia, tripla dimensione come cominciamo ad abituarci vedendo Gentile (entrata, tiro da fuori, idem con passaggio). O magari una nuova, non solo prorompente ma anche abile ala piccola come Frank Vitucci sta tentando di impostare in Polonara. E potrei continuare: ci sono tanti buoni presupposti per il futuro prossimo.
I have a dream… che si mettano le basi, se il futuro prossimo presenta buoni auspici, affinchè quello più lontano (mica tanto, eh? Diciamo per il centenario del campionato) sia addirittura luminoso. Parlo dei ragazzi ancora più giovani: ragazzi, dateci un segno di cambio di tendenza. In altre parole, con l’aiuto imprescindibile dei vostri coaches, fateci vedere che ampliate le vostre conoscenze tecniche, e non solo che potenziate la vostra esuberanza fisica.
I have a dream… che si ricominci a vedere, dopo un rimbalzo, uno o due giocatori correre, sicuri di ricevere un passaggio di lunghezza superiore ai 14 metri, o dal rimbalzista (ancora Stonerook…), o dal playmaker (e qui, fortunatamente, posso citare un giocatore ancora dei nostri, Omar Cook).
I have a dream… che il maggior numero di squadre finiscano il campionato con quasi tutti i giocatori (e allenatori…) che lo stanno per cominciare. Prorpio allo scopo di vedere realizzati molti dei dreams di cui sopra. Ma questo, ho paura, resterà un dream…
I have a dream… che fino all’ultima partita non si possa prevedere chi vincerà, non solo lo scudetto, ma anche la stessa regular season, così come chi andrà, e come, ai playoff, e chi retrocederà, etc. E qui, amici, ho molta fiducia che non resti un dream.
P.S.
With your permission, Mr. King. I apologyze, with all my respect

FRANCO CASALINI   http://www.dailybasket.it/

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