Phoenix, 18/12/2012 Spett.li
ORGANI
DI STAMPA
OGGETTO: COMUNICATO STAMPA
I
PROGETTI DI FSIE: PETER EZUGWU E L’ALLENATORE ITALIANO GABRIELE GRAZZINI
INSIEME PER UNA NUOVA AVVENTURA
Future Stars International Enterprises (FSIE) è il nome
della nuova attività dell’ex cestista Peter Ezugwu, apprezzato in Italia non
solo per le doti professionali messe in luce nella militanza in diverse società
dello Stivale, ma anche per le sue qualità morali. Opera in Arizona e Peter ne
è il fondatore. Si tratta di una scuola di sport e di vita a cui si affianca il
lavoro della Futures Stars Global Foundation (FSGF), impegnata nel sociale.
E’ proprio Peter a raccontarci i dettagli e come tutto è
nato: «Quando ho smesso di giocare lì in Italia, mi è stato proposto di portare
i giovani dell’Assigeco Casalpusterlengo qui, per fare una camp. Sono venuti in
dodici o tredici e da lì è nata la nostra attività. Abbiamo iniziato ad
organizzare campus e programmi per i bambini. La prima cosa è stata trovare
delle scuole che volessero collaborare con me. Una volta che abbiamo trovato la
prima, che era una scuola privata, le altre hanno seguito. Sono stato tanto fortunato
perché ha lavorato con noi un “district”, si chiama così, ovvero un gruppo di
trenta scuole. Abbiamo trovato dipendenti, allenatori che volessero lavorare
con i bambini, fare training e programmi partendo da zero. Future Stars è nata
così. Ora proseguiamo con la nostra attività, con programmi, squadre e
campionati di tutti gli sport: basket, pallavolo, calcio, baseball, football
americano. Siamo in continua crescita, ai nostri programmi hanno partecipato
più di 5000 bambini e proprio in questi giorni ho ricevuto una proposta per
avviare una nuova scuola di basket. Il principio è il “pay to play”, ovvero la
gente paga per giocare e, visto che il nostro lavoro sta avendo tanto successo,
l’obiettivo è quello di aprire un vero e proprio centro sportivo.
Parallelamente al lavoro di FSIE, c’è anche quello della Future Stars Global
Foundation (FSGF) con la quale ci impegniamo nella crescita della comunità. Si
tratta di programmi di sostegno alle persone meno fortunate, per essere
coinvolte nei nostri lavori, avere una vita migliore. Ci rivolgiamo per esempio
a ragazzi con disabilità, autistici. Tutto questo grazie ai nostri sponsor che
ci consentono di dare enormi benefici a questa gente. Inoltre, siamo impegnati
in campagne contro il bullismo, fenomeno molto marcato qui, tra i bambini nelle
nostre scuole. Hanno bisogno dell’aiuto e del sostegno della nostra comunità,
di atleti professionisti che possano far sì che cambi la mentalità di questi
ragazzi che, chissà per quali motivi e disagi, si “rifugiano” negli atti di
bullismo. Ci sono anche tanti ragazzi che non hanno la disponibilità economica
per partecipare ai nostri programmi ed anche in quel caso, ci attiviamo per
fornire loro il sostegno che consenta una partecipazione. Poi ci sono tanti
altri aspetti più complessi».
Chi ha voluto “toccare con mano” questa importante realtà è
stato Gabriele Grazzini, allenatore “Made in Italy” che recentemente si è
recato in Arizona. Da cosa nasce cosa e… Peter e Gabriele hanno scoperto di
avere tante idee comuni ed anche la voglia di realizzarle insieme: «Dopo una
bella stagione ad Omegna, sono rimasto senza squadra _ dichiara coach Grazzini
_ Ho schivato qualche “trappola”, ho scelto di non svendere la mia
professionalità perché so che il mio duro lavoro e la mia storia merita no
rispetto. Ho ancora la faccia giovane, ma anche dieci anni tra vivai e prime
squadre di LegaDue e DNA, impreziositi da due Coppe Italia: non voglio
calciarli via solo perché “c’è crisi”. Ho iniziato a girare i palazzetti di
mezza Italia per rimanere aggiornato ed aspettare la mia chance. Già da tempo
avevo sentito parlare della “Future Stars” ed a fine settembre, quasi per caso,
ho scambiato due parole con Peter, persona che ho sempre apprezzato per
l’atteggiamento positivo che aveva in campo. Da lì è nata l’idea di andare a
vedere coi miei occhi come lavora. Mi ha ospitato a casa sua in Arizona, come
se ci conoscessimo da sempre. L’ho seguito come un’ombra e sicuramente è nata
un’amicizia che è destinata a sfociare in una partnership professionale molto
appagante: amo l’idea di “sport” più “solidarietà” più “crescita personale”».
Ma che mondo cestistico ha trovato Grazzini lì? «Splendido,
molto vicino alla mia natura competitiva e dai pochi fronzoli. Si potrebbe
scrivere un libro, vista anche la mole di appunti che ho preso... _ sorride _
Prima di essere ospitato da Peter ho trascorso una settimana da solo a New York
(il sogno di una vita), e l’ho attraversata in lungo ed in largo tra le sue
università, con il mio bloc notes sempre in tasca. Cito qualche
episodio che spieghi bene le mie sensazioni: ho assistito a diversi
allenamenti della St. John’s University seduto accanto al leggendario coach
Gene Keady che, peraltro, mi ha offerto snack e bibite come fossi un suo
nipotino. Coach Lavin ed il preparatore Dixon non si sono mai risparmiati nel
rispondere alle mie numerose domande. Addirittura Dixon durante un allenamento
mi ha preso per mano e portato nel suo ufficio per darmi una “lezione privata”
di un’ora con tanto di disegnini!
Un giorno ho visitato la Fairfield University, mi hanno
lasciato assistere all’allenamento del mattino, ho pranzato con la squadra (di
cui Sidney Johnson è capo allenatore e Tyson Wheeler un assistente, li
ricordate?), e la sera mi hanno organizzato il viaggio andata-ritorno alla
partita con l’autobus dei loro tifosi. Tutto questo nella settimana dei loro
rispettivi esordi in campionato, quando la tensione raggiunge livelli
altissimi».
Una serie di esperienze straordinarie oltre che
professionalmente formative, dunque, e la possibilità di insegnare il proprio
basket, insieme a Peter Ezugwu: «Mi è piaciuto vedere in palestra persone di
ogni età, a volte intere famiglie. I bambini di 8 anni si cimentano con
canestri e palloni regolamentari e sono molto ricettivi nel sentirci parlare di
pick and roll o difesa a zona. Vedeste poi come si “ammazzano di botte” senza
battere ciglio... Forse in Italia ci facciamo troppe paranoie e ci creiamo
troppi alibi: i ragazzi scoprono il “vero basket” troppo tardi e non ho ancora
capito il perché. Una cosa poi mi ha messo davvero a mio agio: la disciplina.
Peter punta molto sull’allenare la tecnica ma anche sul rispetto delle regole e
dei compagni, c’è un clima di sana e genuina competizione. Nella sua academy i
ragazzi imparano a stare insieme giocando a basket. Mi riconosco molto in
questo. Sono poi riuscito a condurre interi allenamenti in americano e ne vado
orgoglioso».
Il background di giocatore dà sicuramente un qualcosa in più
a Peter, per partire da quelli che sono gli insegnamenti che lo sport gli ha
lasciato e trasmetterli ai ragazzi: «Diciamo che essere un ex giocatore, non è
una cosa importante di per sé _ ammette Ezugwu _ Diventa importante nel momento
in cui questo si “sfrutta” per aiutare le altre persone. Io quando giocavo ho
imparato come si lavora, come si perseguono i propri obiettivi ed arrivare ad
avere ciò che si vuole, come accettare i difetti e lavorarci su per migliorare,
essere forte, non mollare mai. Questo è ciò che l’essere giocatore insegna. Poi
conta come si usano queste caratteristiche nella vita normale. Io lavoro più di
ottanta ore alla settimana, ci sono sere in cui non vado a letto fino alle 3 di
mattina, tra fare programmi, pagare i dipendenti, stilare il budget, trovare
nuovi partners e nuovi allenatori, allenare io in prima persona, curare le
strategie e le collaborazioni con altri gruppi. Ci sono tante analisi di
mercato da fare».
Insomma, Peter Ezugwu si dedica veramente anima e corpo ai
progetti di FSIE e FSGF. Lo ha potuto constatare anche coach Grazzini, nel
periodo di sua permanenza in Arizona: «Nei quindici giorni in cui sono stato
lì, non ha mai avuto una giornata uguale alle altre. Le uniche costanti sono
svegliarsi molto presto, alle sei circa, per andare a fare pesi, e andare a
dormire oltre l’una, dopo aver finito di rispondere a tutte le e-mail. Nel
mezzo, una continua serie di attività e riunioni da rimanere storditi! Giusto per farvi capire, nel giro di un paio
di giorni abbiamo fatto visita ad un paio di centri di assistenza per
bisognosi, incontrato importanti media internazionali, fatto allenamenti nelle
sue “academy”, parlato con il Sindaco di Phoenix, e tra una cosa e l’altra mi
ha fatto conoscere Lance Blanks, GM dei Suns.
Al suo fianco, i primi veri collaboratori sono la moglie
Stacy ed i loro figli, persone genuine che danno il loro forte contributo alla
causa. Se poi avanza del tempo, ci sono sempre decine di telefonate, e-mails e
chiamate Skype a cui rispondere...»
Negli Stati Uniti lo sport è visto e vissuto in maniera
diversa rispetto all’Italia (questo si capisce già dai programmi scolastici,
per esempio), per i giovani americani riveste un’importanza fondamentale. Per
quanto riguarda il basket, ci sono anche delle differenze nei metodi di
insegnamento, ma come dice Peter “il basket è basket, in tutto il mondo”: «Per
i giovani americani lo sport è la vita. Ci sono tanti ragazzi che hanno
situazioni personali difficili e lo sport costituisce una via d’uscita
importantissima _ dichiara l’ex cestista _ Con lo sport riescono, per due o tre
ore al giorno, a sentirsi uguali agli altri, a coloro con cui competono e possono
mettere da parte ciò che di negativo, magari, capita a casa, con gli amici. Qui
l’attività sportiva aiuta i ragazzi a diventare dei leader, ad entrare nei
business. Gli ex giocatori anche solo di college, se sono abbastanza
intelligenti, ricevono sempre offerte per lavorare nelle aziende, soprattutto
in ambito di vendita perché lo sport insegna tenacia e perseveranza. Per quanto
riguarda basket italiano e americano, i ragazzi danno tutto ed ogni singolo
componente di una squadra si sente importante, ha il proprio ruolo all’interno
del team. La pallacanestro è la pallacanestro… è sempre lei. Sì, ci sono alcune
cose un pochino diverse, ma alla fine il gioco è uguale e sia i ragazzi
italiani che quelli americani giocano con tanta passione. Ecco, voi avete il
minibasket, qui non c’è, se giochi a basket, giochi a basket. Anche se hai 9
anni giochi con gli aiuti, giochi per stoppare, prendere sfondamenti, con
aggressività, fai pressing. Tutto, da subito».
Un ragazzo italiano può imparare tanto da un pari-età americano
e viceversa: «Prima di tutto cultura,
cultura, cultura! _ dice Ezugwu _ Vita, esperienza, aprire la mente ed avere
una visione del mondo completamente diversa. Sia il ragazzo italiano che quello
americano, con esperienze simili imparano davvero tutto ed è un’esperienza che
si dovrebbe fare. Chi viene qui a fare un camp internazionale, vive in
famiglia, quindi respira davvero la nostra vita ed è tutto bagaglio culturale.
Viceversa funziona allo stesso modo. Sono scambi di importanza fondamentale, ma
non solo in ambito sportivo, sono proprio essenziali per la vita. Per esempio,
ancora oggi quando dico che ho giocato in Italia, tanti mi rispondono “ma come?
In Italia si gioca a basket? Pensavo si giocasse solo a calcio”. C’è sempre
questa forma di ignoranza, si rimane sempre stupiti della passione con la quale
si vive il basket anche lì da voi. FSIE lavora proprio su questo e stiamo
perfezionando un programma internazionale per quest’estate, in cui sarà dato
spazio alla crescita dal punto di vista cestistico, poi all’insegnamento e/o
perfezionamento della lingua inglese attraverso delle lezioni giornaliere,
momenti dedicati all’educazione alimentare ed al lavoro atletico, grazie alla
presenza di un insegnante incredibile che ha lavorato anche in NBA e propone un
programma specifico per i giocatori di pallacanestro. E’ un’opportunità davvero
importante ed io sono sicuro che i ragazzi, da quando arriveranno a quando
andranno via, quindi in quattro settimane, noteranno cambiamenti di fisico, di
gioco e di mentalità incredibili, tutte cose che costituiranno un’esperienza
importantissima per la loro vita futura».
Parola di uno che è arrivato in Italia da giovanissimo ed
all’Italia resta sempre legato: «L’Italia
è la mia seconda casa. Tante persone che ho conosciuto quando giocavo lì sono
state molto importanti nella mia vita. Quando sono arrivato in Italia ero
giovane, avevo 22 anni, quindi il vostro paese mi ha anche sviluppato come
persona. Ho avuto e mantengo ancora relazioni umane importanti in Italia e credo
che anche i giovani italiani abbiano bisogno di vivere esperienze come quelle
che proponiamo noi qui. Perché le esperienze che vivi a 15 o 16 anni possono
cambiare la vita, per sempre».
E allora, come si dice dalle parti di Peter, “stay tuned”,
perché FSIE darà presto sue notizie!
Ufficio stampa (Italia)
Future Stars International Enterprises
http://www.fsiellc.com (versione inglese e italiana)
Erika
Gallizzi, erika.gallizzi@gmail.com
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